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“Fannullone! Sei un parassita!” Le disse la moglie lanciandogli dietro le consunte pantofole, cacciandolo di casa dopo l’ennesimo pomeriggio trascorso morbidamente sul divano.
E dove si potrebbe rifugiare nella tumultuosa metropoli un tale esemplare d’uomo, ormai fuori dalla sua placida casa?
Se lo chiese lui per primo, ininterrottamente, gironzolando stordito tra i marciapiedi e le piazze della città, provando insoddisfatto a sedersi sui gradini, ad accucciarsi sulle panchine, cercando in ogni modo un comodo riparo. Provò anche sui dissuasori, tra i giochi dei parchi, ma non riusciva a ritrovare la sua quiete.
Si fermò allora pienamente stordito dal desiderio di comodità.
Poi si sedette.
E dolcemente sentì il corpo e i pensieri distendersi.
Si lasciò scivolare in avanti e reclinò il capo.
Piegò leggermente le ginocchia.
Stava dolcemente cominciando a cullarsi.
Un compiaciuto sorriso si aprì sul suo volto attraendo l’attenzione di alcuni passanti incuriositi.
Aveva trovato la panchina-dondolo.


Il quartiere su cui abbiamo lavorato è una realtà vitale ma per questo anche molto complessa, che conta quattordicimila abitanti e centoquindici etnie.Il termine comunità, potrebbe essere fuorviante perché troppo spesso identifica gruppi etnici o religiosi; “l’archivio mobile” suggerisce invece nuove interpretazioni, proponendo un concetto più ampio e attuale di comunità: una comunità di sentimento, una comunità di passioni, di interessi e di desideri… una comunità che non è “data”, ma va scoperta, a poco a poco, mettendosi in gioco. Abbiamo così pensato di progettare un dispositivo che ci permettesse di conoscere il territorio dal suo interno, un archivio in grado di acquisire le informazioni direttamente, che possa aggirarsi tra le vie e i cortili di San Salvario raccogliendo le testimonianze e il vissuto delle persone in tutte le loro possibili forme (testi, racconti, ricette, favole, video, disegni, suoni…). Questo contemporaneo “raccoglitore urbano” dovrà, da una parte, farsi custode delle esperienze delle diverse e tradizionali comunità del quartiere e, dall’altra, divulgarne i preziosi segreti sussurrandoli allo spazio urbano, per creare nuove potenziali comunità trasversali.


Memento guardare al futuro … pensando al passato

Guardare al futuro non significa cancellare il passato: a volte un salto in avanti richiede una rincorsa lunga, che viene da lontano. La storia ancora ci parla, riaffiora nella nostra memoria quando meno ce l’aspettiamo e lascia traccia indelebile nei nostri ricordi. Ecco perché “Memento”.
Una porta laccata che ammicca alla contemporaneità, ma nasconde un’anima lignea che emerge, stratificata nella sua sezione, come un ricordo che riaffiora a poco a poco e sembra voler sussurrare racconti antichi. Forse vorrebbe svelare segreti rimasti intrappolati in chissà quale stanza e poi arrivati a lei, ultimo confine che li ha chiusi per sempre dietro (e dentro) di sé.“Memento” si apre su un ambiente piccolo, grande, colorato, bianchissimo, serio, spiritoso, sfacciato, elegante, minimale o barocco, ma forse, ogni volta, si apre su un mondo che riecheggia nella nostra mente. Un mondo vissuto o solo immaginato.
Un mondo che sempre ci accompagna, eredità di quella cultura – prossima e remota – a cui siamo debitori come civiltà, come uomini, come progettisti. E che, come sempre, basta “scavare” un po’ per ritrovare. Ecco dunque, possiamo lasciarci trasportare in questo viaggio nella storia, tra suggestioni di epoche tra loro lontanissime per stili, decori, gusti e materiali, ma ora apparentemente tutte così prossime a noi. Quasi felici di poter essere sfiorate, quasi… a portata di mano. “Memento” affianca questa matrice storica con una veste minimalista che si declina nella scelta della finitura (laccata), del colore (bianco), come nella smaterializzazione della maniglia (trasparente e formalmente neutra, un elemento “muto” che assecondi il racconto che già proviene dalla porta).
Dietro la facciata minimalista riaffiora un suggestivo racconto storico. Sotto la contemporaneità “superficiale” emerge la traccia di un passato più o meno lontano. Basta però girare la porta perché i termini si capovolgano e, di nuovo, passato e presente mischino le loro carte: il fronte e il retro della porta dialogano tra loro e loro con noi. La stratificazione che si legge sul fronte come sovrapposizione di materiali, colori e significati reconditi anticipa materiali, colori e significati che si troveranno poi sul retro. Quasi che il lato anteriore annunci al visitatore ignaro il suo lato posteriore, come se lo volesse avvertire del carattere di quell’ambiente in cui sta per entrare, in un richiamo diretto – simbolico e allusivo, ma evidente – tra le due diverse facce della stessa porta.
Qui, davvero, quello che tradizionalmente è soglia e confine riesce a farsi filtro, mettendo in comunicazione anche due interni dall’anima differente, due locali caratterizzati da uno spirito proprio, facendoli interagire. Sul retro il cromatismo e la matericità appena accennati sul fronte invadono l’intera porta, mentre la maniglia – pur mantenendo lo stesso linguaggio formale della sua corrispondente – riconquista corposità. Si propone così una porta con infinite varianti “già a catalogo”: è il “catalogo della storia”, riserva illimitata per reinterpretazioni che non fuggono dalla contemporaneità, ma vogliono farsi espressione della sua complessità, della sua stratificazione. Tutte queste infinite varianti sono ottenibili grazie a semplicissimi accorgimenti tecnici – piccoli interventi che non modificano la struttura né i dettagli esecutivi delle porte Dilà con telaio telescopico – ma ne modificano in modo essenziale la percezione e la coscienza.


“L’ordine pubblico nei quartieri non è mantenuto principalmente dalla polizia, per quanto possa essere necessaria, bensì da un’inconscia rete di controlli sociali spontanei”
(Jane Jacobs, Vita e morte delle grandi città)

“L’occhio sulla strada” assume un prezioso valore di controllo e prevenzione per tutti i cittadini: perché denigrarlo e contrastarlo? Perché scoraggiare questo comportamento facendo vergognare chi volentieri si assume questo “ingrato” compito, ogni giorno, ponendosi a scudo anche della nostra difesa?
Gli anziani, per tempo libero e spesso impossibilità a muoversi, amano guardare il mondo dalle loro finestre, spesso vivendo “attraverso” gli altri. Quella che nasce come una loro in fondo innocente mania potrebbe dunque svolgere un’importante funzione sociale, se solo la si favorisse invece di scoraggiarla.
…se solo ci fossero tende a prova di sguardi esterni che, “indiscreti”, si volgono verso la casa e smascherano le improvvisate “signore Fletcher”: tende che permettano di vedere senza essere visti, per “scoprire” senza essere scoperti. Un accessorio per “spie” professioniste, pensato per gli abitanti della casa che anche senza doverle schiudere e senza temere per trasparenze traditrici possono godersi lo “spettacolo” a loro riservato.
Alla tradizionale funzione delle tende se ne aggiunge dunque una nuova, che può essere abilmente integrata in un’estetica accattivante o tradizionale, celata nella trama del tessuto come nella texture del disegno.


Una carta da parati che interagisce con noi e si riconfigura ad ogni nuovo passaggio.
Un campo da gioco a nostra disposizione per accogliere sfide sempre più avvincenti.
Una parete mutevole che ospita segni, geometrie, colori… conservando tra le sue trame strategie e astuzie, delusioni e soddisfazioni di giorni passati.
Una pagina di diario in scala gigante, per esperienze sempre più stratificate.
Una mappa che racconta di grandi successi e piccole, trascurabili sconfitte. Tracce che parlano di noi, e di un pomeriggio noioso diventato eccitante.
Una carta da parati per conoscere nuovi amici, “ammazzando” il tempo in sala d’attesa.
E quando lo sfondo viene portato in primo piano, i termini si ribaltano, il paradosso prende corpo, i veri attori entrano in scena: è il gioco che diventa texture. E’ l’illecito che si fa estetica.


Una lampada che caratterizza l’ambiente con ironia e leggerezza, è un hobby che diventa arredo e un arredo che si fa gioco: è la classica canna da pesca, che ruota e si inclina assecondando ogni nostro gesto, e che accoglie la fonte luminosa come un terminale “fluttuante” nello spazio.
La struttura, con base in acciaio satinato e lucido, è di forma elementare perché il suo unico scopo è sorreggere la canna da pesca, permetterne i diversi movimenti, dare alloggio al trasformatore. E’ un supporto semplice che si “nasconde” nell’ambiente per esaltare il ruolo dell’indiscussa protagonista del progetto: una lampadina bianca che sale e ridiscende, si allunga o si protende verso di noi, estremità di una struttura in cui l’ “esca” è… pura luce.


Un pavimento diventa una cintura, un linoleum una pelle da indossare.Il “Pirellone” si offre al pubblico con una nuova restaurata veste, mentre la vecchia si scopre sorprendentemente alla moda…

“Giallo fantastico” si trasforma ironicamente e si presta a nuovi usi, per cinture sempre diverse, singoli frames di una matrice artistica più ampia. Perché un progetto ben riuscito funziona a tutte le scale…



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