Ristorante Piccolo Lago
Nel ristorante Piccolo Lago la progettazione ha portato ad una riorganizzazione della cucina, sia in termini funzionali e distributivi che formali. Sessanta giorni, un breve periodo di tempo, per connotare il ristorante con una nuova identità, dandogli una marcata riconoscibilità e rendendo lo spazio una declinazione della filosofia culinaria dello chef.
Gli interni sono nati, così, come ideale espansione della cucina, intesa come incipit culturale e assunta come dimensione metaprogettuale; ne sono un riflesso immediato, poiché assolvono contemporaneamente ad esigenze funzionali, legate alla progettazione e all’ottimizzazione delle lavorazioni per le varie portate, e ad esigenze simboliche, rappresentative, emozionali: lo spazio racconta la tradizione del ristorante, si fa memoria del suo passato, evoca atmosfere antiche, suggerisce quelle radici familiari e territoriali a cui il cuoco si richiama direttamente. Il progetto è stato dunque incentrato su questi due temi principali, che dialogano insieme in un confronto serrato, arricchendosi vicendevolmente di nuovi contenuti. La ricerca di innovazione portata avanti da Marco Sacco necessitava uno spazio adeguato progettato su misura: una cucina ampia, dotata di tutte le strumentazioni più all’avanguardia, ma anche strutturata al servizio di una continua sperimentazione; la sua organizzazione spaziale doveva favorire lo sviluppo della ricerca sui singoli piatti, non rappresentando un vincolo alla creatività e alla progettualità dello chef.
L’obiettivo era creare un ambiente piacevole da visitare ma anche da vivere, che ponesse in primo piano il benessere del personale, creando condizioni ottimali di lavoro che si riflettessero direttamente in ogni nuova ricetta. Queste esigenze tecniche, tecnologiche e più strettamente pratiche, che favoriscono un’organizzazione razionale del lavoro della brigata, hanno determinato un layout semplice, caratterizzato da un’estrema chiarezza dei percorsi e dei flussi di lavorazione.
Ecco dunque che la cucina si amplia e si sdoppia, strutturandosi secondo aree di produzione divise per tipologia di prodotti: al piano inferiore si configura la “cucina tecnica”, al piano superiore è invece pensata la “cucina nobile”; si sdoppiano di conseguenza anche tutte le lavorazioni – stoccaggio, pulizia, cottura, servizio – in un processo di rigorosa suddivisione dei compiti e delle funzioni. In particolare nella zona sottostante del locale sono previste tutte le fasi di preparazione e conservazione degli alimenti, mentre in quella superiore sono collocate le cotture espresse e l’impiattamento, ulteriormente suddivisi per tipo di portata (primi piatti, secondi piatti, antipasti e pasticceria). Qui alcune attrezzature di recente concezione favoriscono la gestibilità del cibo per permettere una efficace e sapiente finitura dei piatti: frigoriferi sotto i fuochi consentono di avere il prodotto in conservazione sempre a portata di mano per la finitura, così come i mantenitori caldi posti in corrispondenza del pass garantiscono la fragranza delle cialde e delle guarnizioni
finali.
La cucina riflette dunque su se stessa, sulle sue regole interne, viene ripensata e rifondata per assecondare un nuovo modo di cucinare in cui è il processo di elaborazione dei singoli alimenti, e non dei piatti finiti, che assume un ruolo centrale. Pur riflettendo sulla propria struttura interna e sulle proprie regole intrinseche, la
cucina non è soggetta ad una totale introversione: al contrario diventa momento e occasione di comunicazione dello chef, grazie ad una parete di vetro totalmente trasparente che la separa dalla sala senza individuare una barriera visiva. La parete sembra piuttosto inquadrare ciò che accade dietro le quinte, ponendo i movimenti dei cuochi e dei camerieri al centro della scena. La cucina si apre così alla sala di
ristorazione, si mostra nella sua valenza tecnica e funzionale, sembra voler avvicinare le persone alla ricerca sottesa ai singoli piatti che verranno serviti, portando gli ospiti a pregustarli, a immaginarli, a carpirne mentalmente i processi di lavorazione. La teatralità dell’esecuzione è comunque filtrata, rimane percepibile ma non è mai sfacciata: si offre solo a chi la voglia osservare, senza disturbare la dimensione intima e privata che si crea ad ogni tavolo.
Grazie a questa marcata trasparenza la parete di separazione sala – cucina assolve ad un compito di comunicazione, diventando uno strumento di racconto, una finestra aperta sull’interpretazione filosofico-culinaria proposta dallo chef. Anche altri elementi concorrono però a descrivere la complessità e la ricchezza della sua ricerca: un frigorifero-dispensa dove poter apprezzare gli alimenti che vengono serviti, una
sorta di “abaco di sapori” del territorio, un elemento significativo dalla forte carica simbolica perché, da sempre, la cucina di Piccolo Lago è caratterizzata dalla valorizzazione di cibi locali. Accanto al frigorifero “a vista” si trova una piccola sala di degustazione, luogo deputato alla convivialità; questo spazio intimo rappresenta non a caso il cuore del ristorante, perché l’alta cucina di Marco Sacco è certamente
riscoperta e rielaborazione dei gusti del territorio, è dunque un’operazione culturale spesso sofisticata, ma è anche incontro, gioia, confronto. Nella “sala di degustazione” lo chef può ricevere alcune persone a mangiare, dialogando con loro e introducendole ad un percorso magico.
Ulteriore metafora esemplificativa dell’approccio culinario proposto a Piccolo Lago è la “cucina del fuoco”, anch’essa posizionata sulla linea di diaframma che separa la sala di ristorazione dalla cucina vera e propria; qui ogni volta, come in rito che si ripete immutabile, fedele a se stesso e alla propria storia, viene messa in scena la “spettacolarizzazione” dei processi di affumicatura e di cottura su fiamma, un procedimento che rappresenta l’anima e la tradizione del ristorante Piccolo Lago, da sempre interessato a sperimentare (e rinnovare) processi antichi di lavorazione.
Qui la contrapposizione tra lavorazioni tradizionali e sperimentazioni che, invece, si avvalgono dei più moderni processi tecnologici trova così una perfetta sintesi: le due tecniche dialogano e si compenetrano, arricchendosi vicendevolmente. Ecco dunque che non deve stupire l’uso della brace, di spiedi, girarrosti o di affumicatoi, accanto a all’uso di apparecchiature di matrice estremamente recente (dal “Thermomix”, che
permette di frullare e/o montare ad alte temperature, al “Pacojet”, che consente di lavorare materiali congelati ottenendo polveri gelate o prodotti montati a freddo, riducendo gli sprechi e semplificando la conservazione degli alimenti, dal “Roner”, che sfrutta la tecnologia delle cotture in sottovuoto e a bassa temperatura, fino ai sifoni, che facilitano la gestione delle mousse permettendo la lavorazione di cibi con consistenze particolari).
Un ultimo richiamo, allegorico, all’alta cucina che qui viene proposta è il disegno degli antichi mobili che prima occupavano lo spazio del ristorante ed ora rimangono come semplici profili impressi sul vetro: sono una traccia, una memoria da richiamare, evocano atmosfere mai perdute, suggeriscono antiche cucine con cui
rimane – indissolubile – un legame simbolico ed emozionale. Questi disegni inducono un’esperienza mentale, portando attraverso ricordi personali e collettivi in un viaggio fantastico tra tempi e luoghi lontani; essi testimoniano i passaggi storici e le trasformazioni subite dal ristorante, ne rappresentano la matrice, l’anima più intima che rimane fondativa di tutte le ricerche innovative proposte e di tutte quelle che ancora verranno.
La filosofia culinaria di Marco Sacco, che si muove tra tradizione e innovazione, tra antico e moderno, tra passato e futuro, tra dimensione locale e globale, si svela così a poco a poco, per tappe puntuali, come in un racconto che trova in questo ristorante una piena sintesi funzionale, simbolica e spaziale.